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L’omogenitorialità tra Italia e Unione Europea

La questione

 

Scontro aperto in Parlamento sui diritti civili, dopo che la Commissione politiche europee del Senato boccia la proposta di regolamento UE, disponendo lo stop alle registrazioni dei figli di coppie omogenitoriali.

La questione nasce dopo che l’UE ha proposto un certificato europeo di filiazione, per cui la genitorialità stabilita in uno Stato membro andrebbe riconosciuta in ogni altro Stato dell’Unione europea, al ricorrere di determinati presupposti, a prescindere dal fatto che i genitori siano eterosessuali, omogenitoriali, adottivi o derivanti da maternità surrogata. L’intento è quello di garantire l’accesso ai diritti civili e sociali anche in quegli stati dove non risulti lo status di figlio.

Il motivo principe dello stop è: “l’obbligo di riconoscimento del certificato Ue di filiazione non rispetta i principi di sussidiarietà e proporzionalità”. Se venisse adottato sarebbe “un’invasione del diritto europeo su quello nazionale”. Il punto più discusso, poi, riguarda il divieto di maternità surrogata sancito ai sensi dell’ordinamento italiano (art. 12, comma 6, L. 40/2004), intendendo per maternità surrogata la pratica per cui una donna si obbliga contrattualmente a portare avanti una gravidanza per conto dei cd. genitori intenzionali o committenti.

La legge 40/04 prevede, inoltre, che alle tecniche di procreazione medicalmente assistita possano accedere solo coppie di maggiorenni di sesso diverso, in età potenzialmente fertile. Per questo, le coppie omosessuali non possono accedervi, in Italia, per legge. A riguardo si segnala, però, che in tutta Europa, salvo alcuni Paesi come l’Italia appunto, ma anche la Polonia e l’Ungheria, i figli di coppie omogenitoriali sono riconosciuti fin dalla nascita.

 

La discussione in Commissione

Coloro che si dichiarano favorevoli

 

Coloro che si dichiarano favorevoli all’adozione del regolamento fanno leva su alcuni principi e questioni di diritto:

  • Il principio di non discriminazione
  • il diritto all’identità e alla vita privata e familiare
  • il principio del superiore interesse del minore; tutti richiamati nella Convenzione ONU, così come nei “considerando” della proposta di regolamento
  • Rileva anche la non automatica trascrizione della filiazione in presenza di un certificato di filiazione europea. Ciò in ragione della competenza esclusiva dei singoli stati in merito al diritto sostanziale, correlata al più volte richiamato “principio dell’ordine pubblico”. Entrambi i principi, quindi, sarebbero in grado di impedire l’applicazione di una normativa europea, qualora questa contrasti, appunto, con l’ordinamento nazionale.

Tale interpretazione si fa forte della lettera della norma ricavata dal terzo comma dell’articolo 53 del regolamento in questione. “Il certificato costituisce titolo idoneo per l’iscrizione della filiazione nel pertinente registro di uno Stato membro”. La locuzione “titolo idoneo”, quindi, conferirebbe al certificato di filiazione europea valore meramente probatorio. Si esclude, quindi, qualunque automatismo, mantenendo il diritto di scelta in capo ai singoli Stati membri.

 

Coloro che si dichiarano contrari

 

Coloro che si dichiarano contrari, invece, ritengono che, ai sensi della proposta di regolamento europeo, l’obbligo di riconoscimento (e di conseguente trascrizione) di una decisione giudiziaria o di un atto pubblico, emessi da un altro Stato membro e che attestino la filiazione, così come l’obbligo di riconoscimento del certificato europeo di filiazione, non rispettino i principi di sussidiarietà e di proporzionalità, surrogando la preminenza del diritto nazionale su quello comunitario in materia di diritto sostanziale.

 

Ordine pubblico

 

Si lamenta a riguardo che l’invocazione della clausola dell’ordine pubblico per rifiutare il riconoscimento di un documento di filiazione prodotto in altro Stato membro sia prevista in via del tutto eccezionale e sia da valutare caso per caso, soprattutto avendo riguardo al rispetto dei principi fondamentali definiti a livello europeo. La clausola dell’ordine pubblico, infatti, può essere invocata solo per manifesta contrarietà ad essa. Da ciò si dedurrebbe l’impossibilità che il diritto nazionale limiti i diritti riconosciuti a livello europeo in capo, ad esempio, ad un figlio omogenitoriale, per il solo motivo per cui i genitori appartengono allo stesso sesso. Le ragioni del diniego dovrebbero quindi essere differenti, come, ad esempio, il caso in cui i diritti inviolabili della persona siano stati violati in fase di concepimento.

 

divieto di maternità surrogata

 

L’ala contraria, poi, specifica che la lettera della norma succitata non prevede espressamente la possibilità di invocare il rispetto dell’ordine pubblico per negare il riconoscimento del certificato europeo di filiazione, senza nemmeno indicare la possibilità di avvalersi di istituti diversi (quale ad esempio “l’adozione in casi particolari”) per tutelare il preminente interesse del minore o altri diritti fondamentali riconosciuti a livello europeo.

Tra le altre argomentazioni a sostegno del divieto della maternità surrogata, si specifica inoltre, che tale istituto priverebbe il figlio divenuto consenziente della possibilità di vedere riconosciuto giuridicamente il proprio status di figlio naturale nei confronti della madre, appunto, naturale, nel caso in cui entrambi lo desiderassero.

 

Eccessiva genericità della disposizione

 

Si lamenta, infine, l’eccessiva genericità della disposizione. Non si individuano criteri stringenti, “basati sulla residenza abituale pregressa, debitamente accertata, a tutela di entrambe le parti del rapporto coniugale”. Per esempio nei casi di separazione di fatto con sottrazione del minore ad uno dei genitori”.

Queste le ragioni addotte per la disapprovazione della proposta di regolamento. Quelle oggettive, che hanno riguardo alla lettera della norma, inducono a domandarsi il motivo per il quale non siano state sottoposte all’attenzione del legislatore europeo nell’iter di formazione della proposta di regolamento.

 

Conclusione

 

Il Governo definisce il diniego registrato in Commissione quale “atto di indirizzo” della sua attività.

 

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