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COSA E’ SUCCESSO A CREDIT SUISSE

La vicenda che in questi giorni è figurata nelle prime pagine dei giornali finanziari e non solo: il caso Credit Suisse, è il risultato di scelte, opinabili come qualunque decisione, ma, pare, in accordo con la legge.

Si è trattato di un’inversione di gerarchie rispetto a quelle definite a livello comunitario dal Banking Recovery and Resolution Directive (BRRD), dove, trattando del “salvataggio interno” (bail-in), si specifica che in caso di crisi bancaria il salvataggio graverà in prima misura su coloro che abbiano investito in strumenti finanziari più rischiosi. La Svizzera non fa parte dell’Unione europea, non ha recepito il regolamento comunitario, quindi le tutele per l’investitore non sono invocabili. Per questo le autorità competenti hanno deciso di non seguire la direttiva comunitaria, facendo gravare la crisi su detentori di obbligazioni (c.d. AT1) che  avrebbero dovuto rispondere solo in un secondo momento, solo in via sussidiaria.

Governo svizzero, Credit Suisse e UBS hanno dialogato in maniera fitta e poco trasparente per giorni prima di arrivare all’accordo. La volontà pubblica era quella di non intervenire. L’intento era quello di salvare la banca dal fallimento per mezzo di un intervento privato in qualche maniera imposto dallo Stato. L’opacità del dialogo ha preoccupato i principali azionisti di Credit Suisse (sauditi), fino a quando non è stato diramato l’accordo, che alla fine li ha tutelati molto sopra le comuni aspettative.

UBS offre tre miliardi di franchi in azioni e contemporaneamente la FINMA (l’equivalente della CONSOB italiana), in applicazione della clausola Point of Non Viability, impone perdite su 16 miliardi di franchi svizzeri di obbligazioni Additional Tier 1 (AT1) del Credit Suisse. 16 miliardi che gravano su obbligazioni (AT1, appunto) che, secondo la norma, intesa come prassi, avrebbero dovuto gravare solo dopo la cancellazione delle azioni del Credit Suisse. In questo caso è avvenuto il contrario.

La vicenda ha tutelato gli azionisti. E’ da sottolineare, però,  che, ad esempio, il primo azionista di Credit Suisse (la Saudi National Bank) ha subito dalla vicenda una perdita rilevante, pari a circa l’80% del suo investimento, per una cifra che supera il miliardo di dollari.

La scelta di optare per un sistema “rimaneggiato” di bail-in è stata presa per evitare intromissioni pubbliche, che avrebbero messo a rischio i mercati finanziari globali, ma soprattutto per tutelare i principali azionisti. Vero è, però, che adesso Ubs, dopo il “salvataggio” di Credit Suisse, vanta un totale attivo (1,7 trilioni di franchi) che supera del 200% il Pil della Svizzera e sarà titolare, inoltre, del 25% dei mutui del Paese. E’ quindi lecito domandarsi: se in futuro il colosso bancario che nascerà dalla fusione dovesse andare in crisi, chi lo salverà?

Inoltre, come si assesteranno le banche concorrenti, costrette ad affrontare un oligopolio nel settore? E tutti quei posti di lavoro che subiranno sovrapposizioni in seguito alla fusione tra le due banche che fine faranno? I sindacati hanno manifestato preoccupazione per le sorti lavorative di circa 16.000 dipendenti della Credit Suisse.

La Banca Centrale Europea e l’Autorità Bancaria Europea hanno preso le distanze dal sistema di cui si è avvalso il Governo svizzero. Fino a che punto ciò può tranquillizzare i mercati? Il caso Credit Suisse è una storia vera, che dimostra come il meccanismo di bail-in non valga ovunque e per tutti.

Il mondo delle banche continua a perdere pezzi importanti. Le “avvisaglie” di una crisi di sistema esistono. Le rassicurazioni istituzionali sono sempre meno rassicuranti per chi a questi istituti affida, ad occhi chiusi e con poche competenze, i propri risparmi ed investimenti. Il futuro è incerto, ma sembra si avvicini a cavallo del dubbio.

 

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